STASERA CON ParlaMente 18 luglio 2014

domenica 5 ottobre 2014

#Ebola, un massacro figlio dell'imperialismo

La storia della Sierra Leone non è fatta di grandi condottieri e storici imperatori. Questi 70 mila chilometri quadrati di terra nel cuore dell’Africa equatoriale, venduti alla Gran Bretagna nel 1788 da un sovrano locale per farne una colonia in cui raccogliere schiavi affrancati e apolidi africani, hanno visto l’indipendenza solo nel 1961. Prima governatori e commissari inglesi, poi una serie impressionante di colpi di stato militari e relative dittature, fino alla guerra civile contro il Fronte Rivoluzionario Unito. Solo da pochi anni si tengono elezioni democratiche. Oggi il paese è tra i più poveri del mondo e martoriato dall’epidemia di Ebola, tanto che il governo ha dichiarato la settimana scorsa alcuni giorni di coprifuoco.

Nel frattempo, in Europa e negli Usa si guarda con preoccupazione alla diffusione del virus. A proposito, siamo sicuri che l’Occidente sia senza colpe in tutto ciò? Risponderete che una malattia non distingue europei e africani, ricchi e poveri, potenti e diseredati. Ma mi chiedo come sarebbe la situazione se la Sierra Leone avesse un sistema sanitario all’avanguardia, una classe politica preparata e una cittadinanza istruita ed informata. Il focolaio iniziale in Guinea si sarebbe sviluppato con la stessa virulenza in uno stato ricco e fornito di infrastrutture all’avanguardia? La malattia si sarebbe trasmessa così velocemente se la popolazione disponesse di adeguati servizi d’igiene pubblica? Probabilmente no. E se quelle zone dimenticate della terra si trovano nel degrado, la colpa è in gran parte dell’imperialismo occidentale.

Perché infatti uno Stato sia davvero indipendente non basta concedergli una bandiera, un inno e una costituzione. Serve soprattutto una road map che si ponga l’obiettivo di raggiungere una solida democrazia e l’autonomia economica, due cose che al capitalismo non convengono per niente. Laddove infatti governano i signori della guerra non ci sono diritti per i lavoratori. Se poi l’alternanza al potere è garantita solo dalle armi non si può pensare ad una continuità politica che garantisca la protezione dell’economia locale dalla speculazione. Dunque permane la povertà assoluta, prospera lo sfruttamento, la presenza statale in materia di welfare, istruzione e sanità è impercettibile.

Proprio con tali mezzi in Sierra Leone la sudafricana Branch-Heritage continuava ad estrarre diamanti durante la guerra civile grazie alla protezione armata dei mercenari della Executive Outcomes e in Liberia quasi la metà della terra è nelle mani delle corporation. Il progresso e l’enorme sviluppo dell’emisfero settentrionale del pianeta si sorreggono sulla miseria dell’altra metà e la globalizzazione dei mercati sta solo peggiorando le cose. È chiaro che non si può andare avanti così. L’Occidente deve assumersi finalmente le sue responsabilità o le conseguenze saranno terribili. Possiamo scegliere se continuare su questa via e aspettare che il gigante imperialista collassi tra allucinati remake dell’11 settembre, epidemie e disastri ecologici, oppure rinunciare a questo spietato regime di oppressione.

Come? Potenzialmente esistono mezzi di enorme efficacia. L’Onu si liberi dal fardello del Consiglio di Sicurezza, con l’antidemocratico diritto di veto dei membri permanenti. Il Fmi e la Banca Mondiale concedano prestiti a condizione di adottare politiche di interventismo statale e democratizzazione, in luogo del tirannico liberismo attuale. È vero, sembra un’utopia. Ma, almeno per cominciare, non è necessario aspettare che questi tre guardiani di granito si muovano: è venuto il momento di realizzare una efficace cooperazione internazionale in cui l’Unione Europea rivesta un ruolo guida, prima di tutto fortificandosi e quindi intensificando i rapporti con entità simili (l’Unione Africana, ad esempio) cosicché anche queste a loro volta si consolidino per raggiungere un’indipendenza reale. La verità è che l’era degli Stati-nazione è finita. Se si vuole contare qualcosa, se si vuole cambiare il sistema globale, bisogna unire le forze, aderire alle lotte di emancipazione dei popoli dimenticati. Il futuro? Un governo mondiale fondato sulla pace e sulla giustizia. Come voleva Berlinguer.

Samuel Boscarello per Qualcosa di Sinistra

giovedì 25 settembre 2014

I giovani salveranno l’Italia (e non solo) dalla #crisi


Ogni generazione si distingue per alcuni tratti fondamentali. La caratteristica principale della nostra, nata sulle macerie del Muro di Berlino e cresciuta su quelle delle Twin Towers, è il nichilismo: basta fare due passi in giro per accorgersene. Nelle scuole e nelle università, nelle piazze e sui social network sembra dominare una generale rassegnazione alle sorti di un periodo storico che rischia di essere archiviato solo come una delle tante crisi che il capitalismo ha conosciuto da quando esiste, quelle che certi economisti considerano fisiologiche. Lo saranno per il mercato e la finanza ombra, non certo per chi vive ordinariamente la propria vita, con tanti progetti in testa e pochi mezzi per realizzarli.

Il rifiuto generale dei modelli sociali, politici ed economici che fino ad ora ci sono stati propinati è condivisibile in sé. Non si può dire altrettanto per le conseguenze di ciò: prima tra tutte il populismo. L’avanzata in Europa dei partiti di destra (dall’Ukip di Farage agli ungheresi dello Jobbik) rischia di compromettere seriamente l’unione dei popoli del nostro continente in nome di stupide pretese nazionalistiche. Vecchiume, insomma.

Il fatto che in Italia si sia affermato il M5S, che rifiuta categoricamente di collocarsi a destra o a sinistra, non cambia molto le cose. In un momento nel quale gli ideali politici sono in crisi, rifiutarli del tutto sarebbe una pena capitale. Abbiamo bisogno invece di restituire valore alle ideologie, trovando nuove parole e vie inedite per trasformarle in fatti. Solo così potremo vincere l’inerzia, credendo in qualcosa che non è un dogma né un’utopia: la democrazia nella sua forma compiuta, che comprenda anche l’uguaglianza economica e la giustizia sociale, oltre che la libertà politica. La demagogia, che per sua natura approfitta del malcontento popolare, può solo trarre forza dal declino e dalla corruzione. Ciò basta a rivelare tutta la sua malafede: la storia insegna, specie quella compresa tra le due guerre mondiali.

Ma anche la via populista nel nostro Paese sta perdendo forza. Alle ultime europee il gradasso hashtag grillino #vinciamonoi si è trasformato nel più mite #vinciamopoi e l’astensionismo, rispetto alla tornata elettorale del 2009, è aumentato del 7,5%. La correlazione tra i due fatti è presto detta: continua a dilagare la convinzione che il modo migliore per esprimere il proprio dissenso sia il totale disinteresse a ciò che accade intorno a noi. Questo fa paura.

Dobbiamo capire che la politica non è un hobby che si può scegliere di coltivare, smettendo di farlo quando i risultati ottenuti dal nostro impegno non sono all’altezza delle aspettative. Non curarci della cosa pubblica può solo peggiorare la vita dei cittadini, dal momento che in democrazia non esistono controllati e controllori, ma maggioranza e opposizione. E se la critica costruttiva dell’opposizione rinuncia al suo ruolo, qualunque sia il partito al governo, la libertà stessa rischia di morire.

Per questo motivo la politica è il dovere morale più alto che ci sia. Esso è rivolto a tutti, senza alcuna distinzione, ma deve avere un valore più forte proprio per noi, che stiamo pagando il prezzo più alto della globalizzazione selvaggia e della speculazione. È un imperativo rivolto specialmente a voi, coetanei che avete perso la fiducia nel futuro: anch’io reagirei ugualmente, se non pensassi che negli ultimi anni abbiamo avuto la conferma del fallimento totale del sistema capitalista. Uniamoci e cerchiamo insieme ideali innovativi, perché i nostri nipoti non debbano rivivere la nostra stessa situazione. È rivolto a voi, che ricoprite posizioni di potere e ci rimproverate di essere “bamboccioni”: Pertini diceva che “i giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo.” Se non siete disposti ad offrirceli, lasciate spazio a noi. Avete fallito totalmente, ma almeno ci avrete guadagnato in dignità. Ma è rivolto specialmente a voi, vittime delle disuguaglianze di ogni tipo: date fiducia alla nostra generazione. Vogliamo combattere la povertà, l’emarginazione e l’avidità del sistema, perché tutti gli esseri umani siano finalmente davvero uguali. Perché non è vivibile un mondo che si divide in sfruttatori e sfruttati.

Samuel Boscarello per Qualcosa di Sinistra

martedì 5 agosto 2014

La fine di Gramsci non arriverà





Chi esulta perché l'Unità ha chiuso i battenti mi sembra simile a quei parenti che brindano sulla tomba del vecchio zio per l'eredità ricevuta: ben poco elegante e del tutto irrispettoso. E potete pure star sicuri che sono tanti. Non pensano al personale e ai giornalisti, che dovranno fare i conti con un mercato del lavoro asfittico. Ma, cosa più grave di tutte, non capiscono che perdendo l'Unità diciamo addio anche ad un pezzo della nostra storia. Se ne va una parte di ciò che ci ha lasciato Antonio Gramsci, una porzione considerevole della memoria italiana. Le leggi di un mercato selvaggio che sta uccidendo la nostra cultura e gli errori di gestione hanno fatto la loro parte, ma non bisogna trascurare l'antigiornalismo.


Che cos'è? Si tratta del preoccupante atteggiamento dell'italiano medio di fronte alle testate di stampa. In parole povere, come l'antipolitica, è il classico qualunquismo di chi vuole distruggere tutto. Sui social network possiamo assistere ogni giorno a randellate digitali contro i “media corrotti”. Prendendo ad esempio proprio il caso de l'Unità, i moralizzatori del “ben vi sta” si sono scagliati contro la faziosità del giornale, sottolineando come a loro avviso lo storico fondatore si stia rivoltando nella tomba e quanto forte sia l'asservimento della linea editoriale al Pd. Che, per inciso, è genealogicamente erede anche del Pci. A questo proposito è bene ricordare che in Italia il giornalismo moderno nasce con la lotta politica, dunque è impregnato di una vocazione critica che ci accompagna ancora oggi. Ciò non toglie che distinguere i fatti dalle opinioni sia una cosa, mentre ben altro è manipolare la realtà per disinformare.


Adesso, egregi improvvisati critici del giornalismo italiano, non vi pare un tantino eccessivo ritenere che tutta la stampa italiana sia corrotta? Ma soprattutto, non è segno di estrema ignoranza esultare quando un giornale chiude? Non c'entra nulla il fatto di essere in disaccordo con la linea politica della testata: tutti sanno che l'Unità era l'organo di stampa del Pci. Inoltre, se il motivo della vostra insoddisfazione fosse questo, vi pregherei di riconsiderare un attimo la vostra idea di democrazia. Gli ultimi a darsi da fare per eliminare dalla circolazione i giornali che non la pensavano come loro erano i fascisti, e la fine che fece la sede dell'Avanti!nel 1919 - incendiata e devastata - dovrebbe essere un monito ancora oggi. Dovrebbe.


Il motivo di tanto accanimento contro la stampa è quello comune ad ogni forma d'intolleranza. Insoddisfazione e disinformazione, con una bella dose di populismo. Senza dubbio la rovina della classe giornalistica è la prostituzione intellettuale, ma questo non basta a marchiare un'intera categoria di lavoratori come pennivendoli: è un insulto verso chi svolge onestamente il proprio dovere. Inoltre invocare la chiusura dei giornali per i motivi più disparati (compresi i tanto odiati finanziamenti pubblici) è il paradosso di chi, pur di non essere disinformato, preferisce non informarsi. Il web non è una scusante. Se da un lato Internet ci ha dato la grande possibilità di ottenere notizie gratuitamente, immediatamente e comparando diverse fonti, dall'altro bisogna saperlo usare con consapevolezza ed evitando di abboccare allo scoop complottista del momento o a clamorose bufale. Una capacità che gli italiani non hanno ancora acquisito: fatevi un giro su Facebook per averne le prove.

Per questo motivo abbiamo bisogno del web, altrimenti non esisterebbe nemmeno questo angolo di blogosfera dedicato all'informazione corretta, ma non possiamo rinunciare ai professionisti della stampa. Ritengo che l'attuale crisi dell'editoria sia solo una transizione verso l'integrazione multimediale. Forse domani ci sarà meno carta in circolazione, i giornali guadagneranno con la pubblicità online e – perché no – potranno anche diventare organizzatori di eventi, possedere canali televisivi e pubblicare inchieste in forma di pamphlet e saggi da acquistare in libreria. Qualcuno ci sta timidamente provando. I mezzi non mancano, bastano creatività e voglia di scommettersi. Quanto a l'Unità, non smettiamo di crederci: fino ad ora è sempre riuscita a tornare tra noi. La fine di Gramsci non arriverà.

Samuel Boscarello per ParlaMente

domenica 3 agosto 2014

Cospirazionismo in salsa cattolica: le lobby gay

In cerca di nemici, a caccia di complotti. Dopo i satanisti, gli evoluzionisti, le orde pluto giudaico massoniche e i comunisti, una nuova minaccia per la Chiesa: il potere gay.

Peccato che nel caso dell'insegnante di Trento nessuno abbia tirato fuori la storia della "lobby gay". Non è ironia: speravo davvero che qualcuno dell'orbita cattolica cominciasse a stracciarsi le vesti e gridare all'oscuro complotto, giusto per conoscere le relative argomentazioni di fronte ad un caso che dimostra quanto sia potente invece l'influenza della religione nell'Italia laica (anche se solo per la Costituzione). Ma si vede che la tentazione di giocare con gli assi nascosti nelle maniche è troppo forte. La storia della lobby, resa nota al mondo da papa Francesco per indicare un gruppo di vescovi omosessuali che ostacolano le riforme nella Chiesa, è diventata un modo per indicare ogni mezzo di contrasto alla discriminazione ecclesiastica verso il "sessualmente diverso". Un feticcio nefasto contro cui scagliarsi con tutte le forze, come le fantomatiche trame giudaiche ai tempi di Hitler o la demonizzazione del nemico durante la Guerra fredda. Ogni volta che si affronta il fatidico argomento, basta pronunciare le due parole d'ordine ed ecco che la schiera di paladini della famiglia tradizionale si riempie.

Si tratta dell'Armata CoCa, che non è una holding di imprenditori impegnati nel settore delle bibite gassate e neanche un cartello della mafia colombiana. CoCa sta per "Cospirazionisti Cattolici", un caso che dovrebbe essere studiato da sociologi e psichiatri, i primi per l'analisi e la descrizione del fenomeno, i secondi per la diagnosi e la cura. I CoCa sono alla perenne ricerca di nemici della dottrina di fede. In passato lottavano contro gli evoluzionisti, gli adoratori del demonio e i comunisti (categorie umane che buona parte delle volte si trovavano a coincidere), oggi hanno trovato nella lobby gay una nuova ed entusiasmante sfida. Peccato però che la terribile minaccia sia del tutto artificiale: il peggio è che gli opinion leader dell'area fondamentalista cristiana ne sono consapevoli. Il vero problema consiste nel fatto che i loro discorsi infuocati influenzano chiunque dia loro ascolto. La conseguenza è che l'esistenza della lobby gay viene accolta come una verità assoluta e non importa se i già citati opinionisti siano del tutto in malafede. 

Infatti la storiella viene tirata fuori quando fa comodo, specialmente in ambito politico. Scalfarotto a causa della sua legge, l'Unar per colpa degli opuscoli educativi contro l'omofobia e i sostenitori della laicità statale sono complici e fanno parte della congiura mondiale. Chissà chi è il grande burattinaio dietro tutto ciò. I vertici dei movimenti lgbt? Leader mondiali segretamente omosessuali? La famigerata cricca vaticana? Si attendono risposte. Ma chissà per quale motivo, non si fa mai riferimento all'onnipotenza del Movimento arcobaleno quando un'insegnante viene licenziata perché lesbica, o peggio mentre in Uganda l'ergastolo per i gay ha il beneplacito della Chiesa e la Russia chiude gli occhi di fronte alle violenze omofobe di Occupy Pedophilia. Probabilmente in tutti questi casi la lobby era troppo impegnata a tramare contro il papa per accorgersene. 

Oppure semplicemente i tempi stanno per cambiare. L'Italia si sta finalmente svegliando dal clericalismo che l'ha governata da sempre, complice l'infelice posizione geografica della curia papale. Il pensiero comincia a distaccarsi dall'autorità religiosa che ha regnato sovrana grazie all'ignoranza e alle elargizioni, per aprire una strada in direzione di una società libera. Non serviranno a nulla le campagne della stampa cattolica e gli slogan della Manif pour tous: proprio loro che parlano di legge naturale, dovrebbero sapere che per natura il progresso vince sempre. Prima o poi capiranno che l'amore non è una lobby. 

Samuel Boscarello per Cronache Laiche

Immigrazione: una proposta per Salvini

Accoglienza o respingimento? Ogni giorno barconi carichi di migranti toccano le nostre coste e di conseguenza rimangono molto a lungo in situazioni estremamente precarie, per colpa di molti fattori. Proprio per questo è troppo superficiale puntare il dito soltanto contro il governo o l'Unione Europea, quando in realtà i flussi migratori dai paesi sottosviluppati sono il logico prodotto di un intero sistema malato. Salvini, ma non solo, propone di reinvestire il denaro che oggi spendiamo per l'accoglienza utilizzandolo invece per “aiutarli in casa loro”. Cosa vuol dire tutto ciò? Consideriamo che i flussi principali provengono da Tunisia, Eritrea, Somalia, Gambia, Mali, Nigeria, Senegal, Pakistan e Libia. Questa gente non fugge dalla disoccupazione giovanile o dagli scarsi investimenti sull'università. In effetti, ad averle le università in quei paesi. I tragici problemi da affrontare sono mancanza di democrazia, sfruttamento da parte delle multinazionali, inefficienza delle istituzioni statali ed enormi squilibri nella distribuzione della ricchezza. Dover fronteggiare tutte queste questioni in un solo paese sarebbe già un'impresa titanica, figurarsi dover cercare di cambiare da soli nove stati! In che modo, poi? Davvero credete che sia possibile limitarsi a spedire qualche milione di dollari in uno stato dell'Africa equatoriale per risolvere ogni cosa?

Dunque a prima vista sembrerebbe più ragionevole puntare sull'accoglienza. Ma così facendo ci limitiamo a curare un sintomo, non la malattia. Il problema è che il sud del mondo è malato di globalizzazione. Nel secolo scorso il sistema capitalistico è diventato ancora più spregiudicato, espandendosi in modo abnorme ed inglobando al suo interno anche quelle zone del mondo che avevano appena conquistato l'indipendenza. Alle multinazionali e ai signori della guerra conviene che l'Africa e il Medio Oriente si trovino nella situazione attuale, perché un africano che lavora senza diritti e garanzie per una misera paga è decisamente più conveniente di un operaio occidentale tutelato dalle norme sindacali, che ha bisogno di molto più denaro per mantenersi. Così alla stabilità e al benessere della civiltà euro-americana si oppone la povertà estrema di quella africana, mediorientale ed in parte asiatica. La logica conseguenza sono le migrazioni. Adesso, possiamo fare due scelte diverse. È possibile accettare il selvaggio imperialismo economico, grazie al quale il petrolio libico alimenterà le nostre auto, l'oro ghanese scintillerà nelle gioiellerie e il titanio del Kenya verrà lavorato nelle nostre fabbriche. Chi se ne importa se 25 stati africani in questo momento sono coinvolti in conflitti armati, tanto sono poveri che ammazzano altri poveri. Cosa cambia se in Africa due bambini su cinque sono affetti da malnutrizione, colpa loro se non usano i contraccettivi. Che differenza fa se in Pakistan quasi la metà della popolazione è analfabeta, in Afghanistan addirittura il 62%, colpa dei loro governi che non puntano sull'istruzione. Possiamo anche chiudere gli occhi davanti a tutto ciò, ma siamo obbligati ad accoglierne le conseguenze. Oppure possiamo rifiutare tutto questo e ricostruire un mondo nuovo tramite la cooperazione internazionale. Dobbiamo agire sostenendo le forze democratiche, la diplomazia come mezzo di risoluzione dei conflitti, ma soprattutto bisogna rendere il Terzo Mondo economicamente indipendente.

In che modo? Il Fondo Monetario Internazionale ha la facoltà di cedere grosse somme di denaro alla condizione che i paesi riceventi rispettino alcune linee economiche dettate dal Fondo. Il problema è che oggi il peso di ciascun paese nelle decisioni prese all'interno dell'Fmi è proporzionale alla quantità di denaro che ogni stato mette a disposizione della cassa comune. Il paese che contribuisce di più sono gli Stati Uniti, ma non molto lontano troviamo Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. Ebbene, se i paesi europei decidono di far fronte comune e puntare molto di più sul Fondo Monetario Internazionale possono influenzarne le scelte e stilare un progetto di crescita economica efficace, un Piano Marshall del Terzo Mondo. Quindi, la risposta alla nostra domanda iniziale non è semplicemente “accogliamoli in casa nostra” o “aiutiamoli in casa loro”. La cooperazione internazionale è un metodo infallibile e pacifico, ma le cose non cambieranno dall'oggi al domani. Nel frattempo i flussi migratori, caro Salvini, continueranno. Quindi dobbiamo integrare le due soluzioni. A breve termine l'accoglienza, e l'Europa ci aiuti perché ne abbiamo bisogno, a lungo termine la cooperazione. Se Salvini non capisce tutto ciò, allora i leghisti hanno un leader molto ingenuo. Se invece ne è cosciente, ancora peggio: vuol dire che è in malafede.


Samuel Boscarello per ParlaMente


martedì 22 luglio 2014

Intervista a ParlaMente per TVR Xenon - Video

ParlaMente si concede quattro chiacchiere e svela così i suoi sogni più arditi nonché la sua vocazione. Cos'è ParlaMente? Ne parlo insieme a Luca Giarmanà e Giorgio Di Pasquale su TVR Xenon.


Samuel Boscarello per ParlaMente

mercoledì 16 luglio 2014

Se non ci ascolteranno canteremo più forte

La questione palestinese è la più grande vergogna della diplomazia occidentale. Una storia che comincia da lontano, partendo dalla dichiarazione Balfour del 1917 e sviluppandosi in una spirale di kibbutz, immigrazione, petrolio e armi. Sembra assurdo, eppure parliamo di un conflitto lacerante nell’epoca in cui l’Onu si pone a salvaguardia della cooperazione non violenta, l’Europa è unita dalla democrazia e dalla bandiera a dodici stelle e la guerra sembra roba da libri di storia. Poi accade che una squadra aerea israeliana metta a ferro e fuoco la Striscia di Gaza e tutte le illusioni della civiltà euro-americana saltano irrimediabilmente.

Le colpe sono gravi e non risparmiano nessuno, da quel capitalismo selvaggio a cui conviene mantenere l’instabilità politica nelle zone più ricche di materie prime, fino al disinteresse verso le questioni di politica estera, che già Davide Ricca ha chiaramente sottolineato. Ciò che spaventa di più è il benaltrismo malsano. Lo si può riscontrare ovunque, nelle sedi di partito, sui social network, tra i capannelli che si formano nei bar attorno alla copia del giornale fresca di edicola. Di fronte all’abisso nero del mercato impazzito, dei licenziamenti e della cassa integrazione, dello spread, del rating e di altre cento parole il cui significato meno è chiaro e più fa paura, non c’è spazio per altre riflessioni. È questo il vero dramma della crisi: ci ha resi tutti più egoisti. Che senso ha curarsi dell’immigrato che scappa dagli squadroni della morte o del malato terminale che deve trasferirsi in Svizzera se vuole morire prima che la natura faccia il suo corso, se già il nostro futuro è di per sé minacciato?

Da questo punto di vista, figurarsi se dovessimo occuparci delle vicende che avvengono in un fazzoletto di terra in Medio Oriente! Eppure una visione così miope è proprio quella che non ci permette di superare gli ostacoli della realtà. Non bisogna stupirsi infatti se gli individui più disinteressati sono proprio i giovani, attanagliati dalla paura di sprecare la propria vita a inseguire chimere e poi ritrovarsi con un assegno di disoccupazione in mano. Parlo in terza persona, poiché gli altri potranno anche arrendersi al nichilismo, io no. Da rappresentante degli studenti al Liceo “Secusio” di Caltagirone, tra manifestazioni e assemblee ho incontrato gente che viene colpita dalla sindrome di Tourette non appena sente parlare di politica e persone che il 25 aprile andrebbero in giro con il lutto al braccio. Ma ho visto anche tanti ragazzi che vogliono agire, animati dalle intenzioni migliori e da un acuto spirito critico.

È vero, non siamo quelli de “la fantasia al potere” e delle grandi lotte studentesche, ma consideriamo che la nostra età è il crepuscolo delle ideologie, a causa del trasformismo politico e della commercializzazione di ogni cosa. Non cerco di giustificare l’inerzia scaricando la colpa sulla società: lo hanno già fatto in troppi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma l’ambiente in cui cresce un giovane italiano è la Gaza delle passioni, tra pregiudizi duri a morire e un consumismo elevato all’assoluto. Se prima nelle piazze parlavano Berlinguer e Pertini, adesso assistiamo ad un comico che vuole spaccare tutto e ad un pregiudicato che spaccia dentiere. Ho visto insegnanti prendere a badilate le aspirazioni di comuni maturandi con la rassegnazione di chi a quel crepuscolo vi assiste impotente.

Ebbene, chi trova solo la forza di lamentarsi senza cambiare nulla si limita a osservare le pennellate di rosso e blu mentre si mescolano, il disco solare ormai basso all’orizzonte. Poi c’è chi non vuole restare fermo a guardare, ma scalpita per entrare in azione ed è animato da una fame insaziabile. Siamo noi, riuniti in piccole colonie come gli “esiliati dal mondo delle favole” di Mannarino. Il nostro cenacolo potrà chiamarsi Ateniesi o ParlaMente (un progetto con cui io ed altri ragazzi cerchiamo di riunire chi a guardare il tramonto non ci sta), ma i nomi non contano se consideriamo ciò che siamo davvero: romantici rivoluzionari, che hanno bisogno di unirsi ed infondere fiducia a se stessi, a chi l’ha persa e a chi non l’ha mai avuta. Continueremo a lottare con le idee e battere alle porte di coloro che non ci ascoltano, a difendere la libertà e cantare canzoni di pace. Se non ci ascolteranno canteremo più forte.
Samuel Boscarello per Ateniesi